“Non può più bere caffè, se vuole continuare a vivere!”. Queste le ultime parole che il medico disse a mio padre, e che rimbombavano nella mia testa ed immagino nella sua.
Uscimmo dallo studio in silenzio, divorati dai pensieri: senza dire una parola, si mise in macchina e via senza meta, voleva fuggire lontano da tutto e da tutti, ed io lo lasciai fare.
Pioveva con rabbia, le gocce sembravano sassi lanciati a caso, due persone sotto un ombrello malridotto vagavano senza un'apparente meta, una mamma stringeva a sé il suo piccolo bimbo e, con ogni porzione del suo corpo, lo proteggeva.
Osservavo attraverso il parabrezza dell'auto l'incedere scomposto degli uomini e la grandiosa brutalità della natura, con le mani al volante, sospeso tra il conosciuto passato e l'incerto presente, mentre le gocce d'acqua, scivolavano lungo la linea del mio viso.
Era piovuto tutta la notte, ed ancora non accennava una tregua, uno scroscio d'acqua atavica veniva giù senza freni; inchiodato al letto, gli occhi al soffitto, i pensieri s'intrecciavano senza nessun legame: mi lasciavo condurre nel fiume della mia esistenza e pescavo fra i ricordi.
Mio padre - già a diciotto anni aveva i capelli bianchi - da tutti era considerato un uomo all’antica: lavoro, famiglia e nessun divertimento, solo doveri. Non ricordo una sola azione compiuta per piacere; l'unico era il caffè.
Il caffè per lui, ed anche per me, non è mai stata solo una bevanda; è un rito, è un amico fedele.
Io l’ho conosciuto ventiquattro anni fa. Ero andato a mangiare fuori con amici, stanchi della discoteca del sabato sera decidemmo di trascorrere la serata in una pizzeria appena aperta; il proprietario era anche il cameriere, ebbi il sospetto che fosse anche il pizzaiolo, sfrecciava fra i tavoli con agilità da campione di sci, prendeva le ordinazioni e non ammetteva titubanze, altrimenti decideva lui, improvvisamente spariva dietro le cucine e riappariva con le mani occupate dai piatti. L’unico elemento, che faceva perdere secondi alla sua impeccabile prestazione di velocista era una leggera balbuzie che si accompagnava ad un movimento sincrono delle sopracciglia. Terminato l’ultimo boccone non feci in tempo a mettere le posate nel piatto che si era avventato al nostro tavolo: “ po po porto i caffè ? ” disse; nessuno di noi l’aveva mai preso, il tizio, che aspettava una rapida risposta, cominciava a spazientirsi, davanti a me una coppia di adulti mi fecero pensare ai miei genitori con la tazza in mano, e dissi, con lo sguardo basso, ” si grazie”, e così i miei amici.
Osservavo attraverso il parabrezza dell'auto l'incedere scomposto degli uomini e la grandiosa brutalità della natura, con le mani al volante, sospeso tra il conosciuto passato e l'incerto presente, mentre le gocce d'acqua, scivolavano lungo la linea del mio viso.
Era piovuto tutta la notte, ed ancora non accennava una tregua, uno scroscio d'acqua atavica veniva giù senza freni; inchiodato al letto, gli occhi al soffitto, i pensieri s'intrecciavano senza nessun legame: mi lasciavo condurre nel fiume della mia esistenza e pescavo fra i ricordi.
Mio padre - già a diciotto anni aveva i capelli bianchi - da tutti era considerato un uomo all’antica: lavoro, famiglia e nessun divertimento, solo doveri. Non ricordo una sola azione compiuta per piacere; l'unico era il caffè.
Il caffè per lui, ed anche per me, non è mai stata solo una bevanda; è un rito, è un amico fedele.
Io l’ho conosciuto ventiquattro anni fa. Ero andato a mangiare fuori con amici, stanchi della discoteca del sabato sera decidemmo di trascorrere la serata in una pizzeria appena aperta; il proprietario era anche il cameriere, ebbi il sospetto che fosse anche il pizzaiolo, sfrecciava fra i tavoli con agilità da campione di sci, prendeva le ordinazioni e non ammetteva titubanze, altrimenti decideva lui, improvvisamente spariva dietro le cucine e riappariva con le mani occupate dai piatti. L’unico elemento, che faceva perdere secondi alla sua impeccabile prestazione di velocista era una leggera balbuzie che si accompagnava ad un movimento sincrono delle sopracciglia. Terminato l’ultimo boccone non feci in tempo a mettere le posate nel piatto che si era avventato al nostro tavolo: “ po po porto i caffè ? ” disse; nessuno di noi l’aveva mai preso, il tizio, che aspettava una rapida risposta, cominciava a spazientirsi, davanti a me una coppia di adulti mi fecero pensare ai miei genitori con la tazza in mano, e dissi, con lo sguardo basso, ” si grazie”, e così i miei amici.
La prima volta non fu un granché, anzi, diciamola tutta, non l’ho sputato per vergogna e penso anche Elio e Giorgio, ma ricordo ancora oggi la sensazione che provai: seduto in un locale pubblico di sera con la tazzina in mano a sorseggiare la bevanda nera degli adulti, ci sembrava di avere acquisito, di colpo, la patente della maggiore età.
Da allora, è un compagno inseparabile: inizia la giornata; e sì perché non puoi dire di essere sveglio e cosciente finché le labbra non si bagnano e la lingua non si lascia attraversare dal tepore e l’olfatto incantare dal suo aroma.
L’altro incontro è dopo la pennichella del pomeriggio; è il momento in cui faccio il bilancio della mattina trascorsa e programmo le cose da fare prima di sera, il tutto con la tazzina in mano, ci vediamo alla stessa ora, di solito in casa, in cucina, in piedi davanti alla finestra o seduto sul divano; se sono fuori casa, un luogo ideale dove poterlo incontrare, è il bar abituale, ma all’occorrenza ogni posto è buono, l’importante è esserci.
Il caffè ha accompagnato i momenti più importanti della mia vita, c’era la sera prima degli esami di maturità, ero a casa, tra fogli sparsi, libri e ... ricevo la telefonata di un mio amico: ”Abbiamo le possibili tracce del compito di Italiano che fai, vieni?” mezz’ora più tardi, tutta la quinta F era a casa di Giorgio a scrivere fiumi di parole, dettate da Alessandro, l’intellettuale di casa, dopo qualche ora lo stress accumulato si faceva sentire e le mani in preda a crampi si rifiutavano di continuare l’estenuante lavoro, era il momento buono per una tazza di caldo caffè servito dalla signora Pina, in tazzine di ceramica bianca, decorate con fiori colorati; è stato l’ultimo caffè prima della maturità.
C’era quando andai a Salerno con i miei genitori per vedere la casa che avrei abitato per i cinque anni di università, mentre mio padre firmava il contratto di fitto, l’inquilino, che avrebbe diviso l’appartamento con me, preparava il caffè, qui non c’erano tazzine decorate e vassoio, ma il caffè era altrettanto buono.
E’ stato compagno fedele in tutte le notti insonni trascorse prima di ogni esame, l’ho bevuto: alla scrivania, nella confusione più totale, alcune, anzi tante volte, l’ho versato sui libri accatastati e sparsi dappertutto; nelle pause delle lezioni, nel bar dell’università, tra le chiacchiere di libertà e sogni irrealizzabili e il pomeriggio dopo la seduta della tesi di laurea: che caffè splendido, quello.
Poi venne il caffè, preso al primo appuntamento, con la donna che sarebbe divenuta mia moglie, di quell’occasione per la verità ricordo il suo caffè, macchiato in tazza di vetro, con una bustina di zucchero di canna e, non dimentico, i quindici caffè presi nel corridoio della clinica, la notte in cui attendevo la nascita di mio figlio.
Non abbiamo condiviso solo gioie, il mattino in cui ci lasciò mia mamma, nel bicchiere marrone del distributore c’era. Tutta la famiglia lo sorseggiava in silenzio, tra lacrime e ricordi.
Uno squillo del telefono mi fece sobbalzare, un venerdì come allora, ebbi uno strano presentimento, cercai il telefono, mi alzai dal letto, instabile sulle gambe raggiunsi la scrivania: il numero mi era sconosciuto, “pronto sono il commissario … venga subito all’albergo “La Fata” in via … stanza 252”.
Da casa all’albergo saranno meno di cinque chilometri, in quell’attimo afferrai l’eternità. Nel parcheggio, l’auto della polizia ed un’ambulanza: l’ansia mi divorava. Nella hall il commissario si avvicinò, non lo feci parlare, gli dissi di condurmi da mio padre: era steso a terra, nella stanza aveva trascorso la notte, la sua ultima. Aveva il cranio fracassato dall’esplosione di un colpo di pistola: che avesse il porto d’armi lo ignoravo e compresi che non sarebbe stata l’unica sorpresa.
Lo fissai e per la prima volta vidi un uomo e mi sorpresi della scoperta, per tutto il tempo che lo avevo avuto accanto, per me era sempre stato solo un padre, cioè voglio dire il papà è un genere a sé; esistono gli uomini e poi i padri.
L’ultimo caffè, insieme, lo avevamo bevuto il giorno prima, nel bar sotto lo studio del dottore, “il caffè ti accompagna per tutta la vita, ti aiuta a pensare, a sognare, a prendere una decisione” mi aveva detto, mentre lo sorseggiava nel suo bicchiere di vetro, lui, la sua decisione l’aveva presa, in silenzio, come sempre, e con la sua tazzina di caffè in mano.
L’altro incontro è dopo la pennichella del pomeriggio; è il momento in cui faccio il bilancio della mattina trascorsa e programmo le cose da fare prima di sera, il tutto con la tazzina in mano, ci vediamo alla stessa ora, di solito in casa, in cucina, in piedi davanti alla finestra o seduto sul divano; se sono fuori casa, un luogo ideale dove poterlo incontrare, è il bar abituale, ma all’occorrenza ogni posto è buono, l’importante è esserci.
Il caffè ha accompagnato i momenti più importanti della mia vita, c’era la sera prima degli esami di maturità, ero a casa, tra fogli sparsi, libri e ... ricevo la telefonata di un mio amico: ”Abbiamo le possibili tracce del compito di Italiano che fai, vieni?” mezz’ora più tardi, tutta la quinta F era a casa di Giorgio a scrivere fiumi di parole, dettate da Alessandro, l’intellettuale di casa, dopo qualche ora lo stress accumulato si faceva sentire e le mani in preda a crampi si rifiutavano di continuare l’estenuante lavoro, era il momento buono per una tazza di caldo caffè servito dalla signora Pina, in tazzine di ceramica bianca, decorate con fiori colorati; è stato l’ultimo caffè prima della maturità.
C’era quando andai a Salerno con i miei genitori per vedere la casa che avrei abitato per i cinque anni di università, mentre mio padre firmava il contratto di fitto, l’inquilino, che avrebbe diviso l’appartamento con me, preparava il caffè, qui non c’erano tazzine decorate e vassoio, ma il caffè era altrettanto buono.
E’ stato compagno fedele in tutte le notti insonni trascorse prima di ogni esame, l’ho bevuto: alla scrivania, nella confusione più totale, alcune, anzi tante volte, l’ho versato sui libri accatastati e sparsi dappertutto; nelle pause delle lezioni, nel bar dell’università, tra le chiacchiere di libertà e sogni irrealizzabili e il pomeriggio dopo la seduta della tesi di laurea: che caffè splendido, quello.
Poi venne il caffè, preso al primo appuntamento, con la donna che sarebbe divenuta mia moglie, di quell’occasione per la verità ricordo il suo caffè, macchiato in tazza di vetro, con una bustina di zucchero di canna e, non dimentico, i quindici caffè presi nel corridoio della clinica, la notte in cui attendevo la nascita di mio figlio.
Non abbiamo condiviso solo gioie, il mattino in cui ci lasciò mia mamma, nel bicchiere marrone del distributore c’era. Tutta la famiglia lo sorseggiava in silenzio, tra lacrime e ricordi.
Uno squillo del telefono mi fece sobbalzare, un venerdì come allora, ebbi uno strano presentimento, cercai il telefono, mi alzai dal letto, instabile sulle gambe raggiunsi la scrivania: il numero mi era sconosciuto, “pronto sono il commissario … venga subito all’albergo “La Fata” in via … stanza 252”.
Da casa all’albergo saranno meno di cinque chilometri, in quell’attimo afferrai l’eternità. Nel parcheggio, l’auto della polizia ed un’ambulanza: l’ansia mi divorava. Nella hall il commissario si avvicinò, non lo feci parlare, gli dissi di condurmi da mio padre: era steso a terra, nella stanza aveva trascorso la notte, la sua ultima. Aveva il cranio fracassato dall’esplosione di un colpo di pistola: che avesse il porto d’armi lo ignoravo e compresi che non sarebbe stata l’unica sorpresa.
Lo fissai e per la prima volta vidi un uomo e mi sorpresi della scoperta, per tutto il tempo che lo avevo avuto accanto, per me era sempre stato solo un padre, cioè voglio dire il papà è un genere a sé; esistono gli uomini e poi i padri.
L’ultimo caffè, insieme, lo avevamo bevuto il giorno prima, nel bar sotto lo studio del dottore, “il caffè ti accompagna per tutta la vita, ti aiuta a pensare, a sognare, a prendere una decisione” mi aveva detto, mentre lo sorseggiava nel suo bicchiere di vetro, lui, la sua decisione l’aveva presa, in silenzio, come sempre, e con la sua tazzina di caffè in mano.
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