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La casa di famiglia




Per la famiglia, lo zio, dava i numeri. A me non importava se era pazzo o meno, le sue storie e il suo modo di raccontarle mi affascinavano, e ora mi manca.Non si era voluto sposare, benché amasse a modo suo Rosina. Si erano conosciuti a scuola e non avevano mai finito di volersi bene;  anche lassù, ne sono certo, lui, gliene combinava di tutti i colori.

Seduto alla scrivania, con il sigaro in mano, così lo ricordo.

È morto il 20 marzo del 1986, zio Alberto, aveva sessantuno anni. Qualche giorno dopo, senza nessun problema serio di salute, anche Rosina morì: non poteva rimanere senza il suo amore. Alla fine dell’estate andammo ad abitare al nord. Papà era un prefetto, ogni quattro anni lo trasferivano di sede. Dopo cinque anni, sempre in estate, ritornai in Calabria, nella casa di famiglia. 

In quella casa, la notte, dopo aver spento il lume e prima di addormentarmi, alcuni rumori da sempre si manifestano, delle semplici presenze materiali: lo scricchiolio di un mobile, uno sbatter d’ali, un suono lontano indefinito. Alcune volte, la sensazione di tali presenze m’inquietò, segno del mio animo turbolento. Spesso le accettai e anzi le attesi come un rito pre sonno, ma non ho mai creduto a ciò che mi raccontava mio fratello, sperando di spaventarmi, e cioè che quei suoni rivelassero una presenza misteriosa.

Quella sera d’estate, nella mia camera da letto, che avevo lasciato a malincuore e che ritrovavo intatta, quelle presenze materiali si rivelarono come al solito, ma allo stesso tempo percepii qualcosa di diverso. Anzitutto riuscii a identificarne il luogo di provenienza. Solitamente le ho sentite diffondersi nell’aria senza alcuna collocazione precisa, invece quella notte avvertii, subito, dove si fossero originate e persino le sentii muoversi. Nell’angolo opposto al mio letto c’è un baule, appartenuto a mia nonna, strapieno di libri. Quella sensazione che nel tempo avevo avvertito sempre come diffusa, la percepii provenire dalla parte del baule, appena sopra: un soffio in un primo momento e poi un breve silenzio, poi ancora un soffio. Dalla finestra, alla mia destra, aperta per fare entrare un po’ d’aria, un fruscìo e poi il soffio nella stanza, e ancora il fruscìo, si alternarono per alcuni secondi. Quando il silenzio sembrava avesse preso il sopravvento, il soffio e il fruscìo mutarono tonalità. Quel suono, indecifrabile e indefinito, raggiunse finitezza e una perfetta chiarezza. Tutto il mio essere parve acquietarsi, rendersi immobile e concentrarsi al pieno ascolto. E dopo una pausa d’incredulità, dovetti arrendermi alla realtà: quei suoni erano ormai parole e io le comprendevo. 

«Dove sei? Dai lo so che sei qua. Non farmi spaventare.»

«Eccomi.»

«Ma dove, non ti vedo.»

«Non mi vedi? Sono qui, Rosina.»

Nel sentire quel nome, e la voce che lo aveva pronunciato, un tremore mi pervase tutto il corpo. Trattenni il fiato e attesi altre parole.

«Anche prima,
molto prima della rivolta delle ombre,
e che nel mondo cadessero piume incendiate
e un uccello da un giglio potesse essere ucciso.
Prima, prima che tu mi domandassi
il numero e il sito del mio corpo.
Assai prima del corpo.
Nell’epoca dell’anima.
Quando tu apristi nella fronte non coronata, del cielo,
la prima dinastia del sogno.
Allorché, contemplandomi nel nulla,
inventasti la prima parola.
Allora il nostro incontro.».

Silenzio. E ancora silenzio. Poi, mi parve di sentire un gemito, lei piangeva e con voce tremula disse:«La poesia del nostro primo incontro.».

Poi, così come accadeva quando da bambino li ammiravo alternare momenti seri a spassosi, lei disse:«Mi fai il solletico, dai smettila. Sei sempre il solito burlone.»

«Andiamo un po’ al fiume, a passeggiare.», disse lui improvvisamente.

«Sì andiamo, altrimenti mi tormenti.»

Per quanto mi sforzassi di parlare per manifestare la mia presenza, nessun muscolo del mio corpo si sollevava e dalla bocca neanche un soffio ne usciva. Neanche loro parlavano più, pensai che fossero andati via, ma concentrandomi di nuovo all’ascolto, percepii alcuni sussurri che si sovrapponevano, poi s’arrestarono. Tutt’a un tratto riudii le parole di Rosina, più vicino, quasi mi sfioravano, disse:«Fermati, Alberto, sento qualcosa.»

«Dove?» egli rispose, da più distante. 

«Qui accanto a me. Vieni.»

Sentivo il forte respiro di lui, venire verso di me.

«Corri ho paura.», disse lei, sempre alla mia destra.

«Eccomi. Sono qua.»

Poi, non più parole ma solo sussurri, appena accennati, che si affievolivano fino a placarsi e tutto fu avvolto dal silenzio.

Il mio corpo pian piano si ridestava, ero rannicchiato, come fossi tornato bambino, sul fianco destro. Con gli occhi socchiusi vidi un raggio di sole, entrava dalla finestra e puntava in direzione del baule. Mi alzai sistemandomi seduto in mezzo al letto, con le dita stropicciavo gli occhi chiusi e, solo dopo un lungo sbadiglio, li aprii. Quel raggio di sole illuminava la copertina scolorita di un vecchio libro. Scesi dal letto e a piedi scalzi mi avvicinai. Ebbi appena il tempo di leggere il titolo: Poesie d’amore di Rafael Alberti. Una raffica di vento improvviso lo sollevò e, sospeso in aria come se qualcuno lo sorreggesse, le pagine rapidamente scorsero. Poi pian piano il vento si placò e il libro cadde sul baule, aperto sulla pagina di quella poesia del loro primo incontro: Secondo ricordo … risonar di baci e batter d’ali..


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